Viaggio nei meandri della psiche umana: "Come fa l'orologio quando è avvolto nel cotone"

Inviato da Sabrina Fasanella il Dom, 04/03/2012 - 21:54
Categoria recensione: 
Recensione Spettacolo Teatrale
Viaggio nei meandri della psiche umana: "Come fa l'orologio quando è avvolto nel cotone"

Il Teatro a Perugia non vive solo nel Morlacchi. Tante piccole realtà tengono accesa la luce della cultura teatrale, regalando momenti di intima commozione. E’ il caso della Sala Cutu, gestita dall’associazione culturale Teatro di Sacco, dove sabato 3 marzo è andato in scena - nell'ambito della rassegna "Indizi-2022" - lo spettacolo “Come fa l’orologio quando è avvolto nel cotone” del salentino Danilo De Summa.
Un gradevole teatrino ai piedi della chiesa di San Domenico ha accolto questa toccante rappresentazione, tratta da uno dei celebri racconti di Edgar Allan Poe, “Il cuore rivelatore”, dal quale De Summa ha ricavato con intelligenza ed efficacia un monologo sospeso tra realtà e dubbio, tra apparenza e sostanza. Sfruttando la carica di tensione già fornita da Poe, l’attore si rivela abilissimo nel coinvolgere pienamente il pubblico, riuscendone a penetrare l’inconscio, smuovendone le coscienze, inducendolo ad interrogarsi e a giudicarsi, facendogli abbandonare definitivamente il ruolo passivo di voyeur che comodamente recita sedendosi in platea.
Il filo invisibile su cui cammina funambolicamente la storia è il confine tra pazzia e razionalità, o forse tra pazzia e monomania; ma andando più a fondo potremmo leggere lo spettacolo come macchina distruttrice dei pregiudizi umani, che ne rivela l’infondatezza ponendoci in continuo dubbio.
Il personaggio protagonista, interpretato da De Summa, si presenta quale narratore di una storia che descrive come a lui estranea: ma la feroce difesa che compie nei riguardi di Martin, protagonista della tragica vicenda ch’egli ci propone, rivela come in realtà sia lui stesso il protagonista della storia che sta rievocando. Solo alla fine però appare chiaro che questo racconto non è altro che un tentativo di autoredenzione, l’assassino che vuol convincere gli altri ma soprattutto se stesso che assassino non è. E in parte ci riesce. La bellezza di questo testo consiste nell’inedito sguardo che ci propone sulla psiche umana, capace di grandissime abilità, ma mossa da oscure pulsioni. Martin è pazzo o no? Non siamo un po’ tutti dei Martin? A chiunque si consideri “normale” può bastare un dettaglio, anche minuscolo, perché si inneschi un meccanismo che va oltre la volontà e che, pur non raggiungendo livelli estremi come nel caso del protagonista che arriva ad uccidere, ci può indurre all’inimmaginabile. Troppo poco conosciamo le potenzialità della nostra psiche per giudicare Martin. A lui è bastato un occhio, uno sguardo. Lo sguardo di una persona che non odiava, anzi. Ma quell’occhio “da avvoltoio, coperto da un orrendo velo” lo ha inquietato al punto da decidere di uccide l’uomo che lo possedeva pur di non vederlo più. E lo uccide con estrema lucidità, non in preda ad un raptus di follia. E’ proprio questa sua razionalità ad essere sconvolgente: il suo gesto sembra essere pienamente cosciente.
Ma non è così. L’unica cosa che lo riporta alla realtà proviene dal suo stesso inconscio, lo stesso che gli aveva suggerito di uccidere il vecchio. Il senso di colpa comincia a strisciare insinuandosi tra i meandri della sua mente con un rumore sordo come di un orologio avvolto nel cotone: il battito del cuore del vecchio; questo suono lo ossessiona, lo tortura, portandolo ad ammettere la sua colpa. Anche se lui non si sente colpevole. Il suo inconscio ha lavorato, non la sua razionalità. Di qui il terribile interrogativo: Martin è un assassino, ma tutti dovremmo forse considerarci potenziali assassini?
Complice l’intimità della sala, si crea un contatto diretto di tensione ed empatia tra il pubblico e l’attore, e quest’ultimo con abilità trasforma la “quarta parete” in una lente d’ingrandimento, capace di palesargli i pensieri degli spettatori. Con una felice immagine, egli penetra nelle menti che ha di fronte, stimolandole e mettendole a nudo, come se i pensieri che nascono in sala come crisalidi, divenuti farfalle volino sul palcoscenico.
Precisa scelta di De Summa è quella di non utilizzare null’altro che una sedia per il suo spettacolo: “io credo nel teatro dell’attore: il corpo e la voce bastano a stimolare l’immaginazione e ad evocare la realtà che voglio rappresentare. Se l’attore vede davvero quello che dice, anche il pubblico lo vedrà”, ci dice De Summa. Questo suo spettacolo, come simpaticamente ci racconta, nasce da un’esperienza laboratoriale di molti anni fa, quando ancora non sapeva che avrebbe fatto del teatro la sua vita. Gli proposero di fare un’improvvisazione proprio su questo racconto di Poe, ed egli ne rimase affascinato al punto da promettersi di farne uno spettacolo. Ha mantenuto la promessa e, a quindici anni dal debutto, questa sua produzione autofinanziata conta più di mille repliche. Una di queste l’ha regalata a Perugia, e gliene siamo assolutamente grati. Ci ha offerto l’occasione di sperimentare ancora una volta il magico potere del teatro di scuoterci nel profondo e, forse, cambiarci per sempre.

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