La follia del potere, il potere della follia: Re Lear al Morlacchi

Inviato da Sabrina Fasanella il Lun, 17/12/2012 - 00:48
Categoria recensione: 
Recensione Spettacolo Teatrale
La follia del potere, il potere della follia: Re Lear al Morlacchi

Re Lear di placido incontra l'oggi e gli strizza l'occhio, senza stonature e senza denaturare il testo Shakespeariano, esaltandone l'originale modernità. Una scena aperta, una corona rovesciata, e gli attori che, come fossero in prova, si vestono in scena, assistono dal fondo del palcoscenico aspettando il proprio turno. Nessun fondale nero, nessuna quinta: quasi a rammentare allo spettatore, tramite la presenza non celata del muro bianco di fondo, l'immanenza della storia raccontata. Sarebbe forse bastato questo: risultano superflui i riferimenti visivi all'attualità, le immagini di Kennedy o della Monroe. Perchè di per se eterno ed universale è il genio di Shakespeare (o di chi per lui, dato che sempre piu spesso si è messa in discussione la paternità dell'attore di Stratford dei suoi grandi capolavori). Re lear è un gran calderone in cui ribollono i temi più scottanti della natura umana; è la tragedia della follia piena di saggezza, della finzione di chi deve farsi passare per pazzo, del savio che impazzisce. È il potere che asseta, l'amore paterno e filiale messo in discussione, la vecchiaia con il suo ritorno all'infanzia e l'isolamento che ne deriva, quasi in un fatale gioco del destino. In questo allestimento in grande stile non ci sono mezze misure: come ha detto Placido, Shakespeare non è eleganza, è sangue, sperma, carne. Ma anche voce, corpo, pelle, fango: è l'uomo più terreno e viscerale. La vicenda è ambientata a corte, ma i suoi personaggi non hanno nulla di regale, se non i gretti discorsi sull'eredità del regno stesso. Ed è proprio su questo che fa perno Placido, circondato da un cast di tutto rispetto (ben 13 attori) che forse tiene in piedi lo spettacolo più di lui. Di grande presenza scenica con la sua folta chioma bianca, Placido/Lear sembra arrivare sotto sforzo ai picchi di tensione vocale, ma questo contribuisce a rendere l'immagine di un re ottantenne stremato e non più savio.
Accanto a lui la perfida Goneril, una Margherita di Rauso dalla voce profonda e possente, la sorella Regan, Linda Gennari, dalla cattiveria ingenua e non premeditata (ma non meno insana) resa da un'interpretazione leggera e svampita, e infine la dolce sorella Cordelia, unico personaggio positivo che rimedia alla scarsità di battute con il canto angelico di Federica Vincenti.
Sicuramente non trascurabile è il personaggio del non meglio identificato (e non a caso) "Matto", interpretato da un Brenno Placido saltellante e colorato.
Su un binario parallelo viaggia la trama secondaria, che a tratti si sostituisce alla vicenda personale di Lear: è la storia del conte di Gloucester (un intenso Gigi Angelillo) e di Edgar, ovvero di un padre che, doppiamente tradito dal figliastro, si ritrova a vivere, cieco e sull'orlo della disperazione, un'emozionante inversione di ruoli col suo legittimo figlio . La storia di Edgar, benché passi in secondo piano, è forse ancora più interessante del plot principale: e l'interpretazione graffiante e sofferta, ironica e potente di Francesco Bonomo trasuda il dolore di un bambino naïf costretto a farsi uomo e a scontrarsi con la cattiveria del mondo, fingersi pazzo ed indossare la maschera della follia per poi infine diventare il padre di suo padre e reggere il peso di un dramma familiare. Perfetto nel suo ruolo di seduttore ipocrita e senza scrupoli, Giulio Forges veste (e sveste!) i panni di Edmond, pomo della discordia tra Golerin e Regan, affamato di sesso e potere. Se nell'intenzione registica di Placido c'era l'idea di fare uno Shakespeare "pop", nazional-popolare, sicuramente l'impresa è riuscita a dare dignità al concetto tanto abusato di "popolare": questo Re Lear non è una semplicistica reinterpretazione svilita dalla voglia di svecchiare a tutti i costi i classici, ma un tentativo ben riuscito di portare la cultura alla "massa" senza compromessi di basso livello che spesso oggi offendono l'intelligenza del pubblico.

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