Susanna Bolchi: “Mio padre Sandro, autore di grandi sceneggiati per il piccolo schermo”

Inviato da Radiophonica il Dom, 01/03/2020 - 12:09

 

 

 

 

a cura di Alessandro Ticozzi

 

 

La produttrice RAI rievoca affettuosamente la figura del padre, tra i nostri più importanti registi di riduzioni catodiche (e non solo).

 

 

 

Dopo essere stato attore a Trieste, Sandro svolse a Bologna anche attività di critico drammatico e fondò, con altri, uno dei primi teatri civici, “La soffitta” (1950): da cosa furono segnati questi suoi inizi?

 

Dal fatto che – fin da adolescente – ha sempre nutrito la passione per il teatro: avendo un padre che – nonostante fosse colonnello nelle forze armate – era di mentalità piuttosto moderna, in casa gli lasciava inscenare delle commedie in cui faceva il regista e spesso anche l’attore, pur essendo negato su quest’ultimo fronte in quanto – possedendo una dizione molto veloce – si mangiava le parole. Questo lo svolgeva in collaborazione con Lucio Mandarà e Dante Guardamagna, due suoi compagni ormai scomparsi che poi sono diventati dei professionisti della sceneggiatura. Quindi l’avventura teatrale è cominciata come passione: dopodiché – una volta trasferitosi a Bologna – ovviamente ha cercato di farla diventare un lavoro. Avendo una notevole faccia tosta, ha messo insieme un gruppo di amici: inoltre è riuscito a convincere pure Memo Benassi, allora tra i più importanti attori teatrali italiani. Insieme hanno fondato questo teatro da Lei menzionato, che è durato un paio di anni: uno dei primi stabili ad allestire una serie di commedie anche non abitualmente frequentate dalle scene italiane.

 

Dopo alcune esperienze come regista di prosa e lirico, dal 1956 Sandro si è dedicato soprattutto alla televisione, realizzando con tecnica robusta e senso dello spettacolo numerose commedie e romanzi sceneggiati (I miserabili, I promessi sposi, I fratelli Karamazov, Il crogiuolo, Il mulino del Po, prima e seconda parte, per cui lavorò anche alla riduzione con l'autore del romanzo Riccardo Bacchelli, e Assunta Spina): che valore ebbero all’epoca tali lavori per il piccolo schermo nostrano?

 

Senz’altro carattere didattico e divulgativo, perché – a cominciare dai Promessi sposi per passare ai grandi autori russi – ha portato nelle case degli italiani scrittori molto importanti che magari non furono letti – o comunque non erano così conosciuti – e li ha fatti diventare dei compagni della sera: in più secondo me ha fatto pure una serie di scelte – come Il crogiuolo, alcuni romanzi di De Marchi quali Demetrio Pianelli o Un inverno freddissimo di Fausta Cialente, che lui intitolò per la televisione Camilla con protagonista Giulietta Masina – che hanno permesso agli spettatori di scoprire autori contemporanei che non erano noti sul piccolo schermo. Quindi la sua è stata anche un opera di approfondimento letterario portato ad uso e consumo di un pubblico che andava crescendo e abituandosi alla televisione, secondo un evoluzione narrativa.

 

Cos’ha indotto Sandro a curare per la radio tutto il teatro di Italo Svevo e per l'Arena di Verona l'allestimento dell'opera Laforza del destino?

 

Svevo è stato il grande amore della sua vita: avendo vissuto lungamente a Trieste – ed essendo di formazione culturale mitteleuropea – , mio padre ha amato moltissimo quella città, nella quale è sempre voluto tornare con grande gioia. Insieme a Stuparich e a una serie di altri scrittori triestini, Svevo gli fu molto caro e affine: per questo ne ha curato l’opera omnia per la radio. Quando è stato male e poi se n’è andato, il libro che mi ha chiesto di portargli dov’era ricoverato in ospedale è stato infatti La coscienza di Zeno: lui lo teneva sul comodino, e io gliel’ho messo nel feretro perché sapevo che avere Svevo con lui gli sarebbe stato più dolce. Il fatto che abbia inoltre diretto La forza del destino per l’Arena di Verona non mi meraviglia più di tanto, perché era un opera che sicuramente rientrava nelle sue corde – amando a prescindere la lirica in generale – e lui ha sempre avuto un ottimo rapporto con quel grande palcoscenico.

 

Lei è ormai da tempo produttrice di fiction RAI: com’è cambiato il linguaggio televisivo rispetto all’epoca che vide Sandro tra i pionieri?

 

La fiction è cambiata innanzitutto formalmente proprio per il fatto che si chiama fiction e non più sceneggiato, come se questo le desse una nobiltà maggiore: ma in realtà ovviamente è mutata perché tutto si evolve e progredisce col passare degli anni. È cambiata sicuramente per possibilità di mezzi: c’è una tempistica più larga, nonché una serie di strumenti che rendono il regista capace di raccontare le storie con una maggiore ricchezza di immagini. Esistono degli effetti speciali e una maggior gamma di possibilità attoriali, perché nel frattempo si sono sviluppate moltissimo le scuole di recitazione: è diventato anche più frenetico il tipo di montaggio e dunque la modalità di ripresa, giacché il pubblico – abituato a una vita sincopata e alla pubblicità – non ha certo la pazienza di una volta. Nel momento in cui si mette davanti allo schermo, vuole essere immediatamente catturato da quello che vede: quindi ci sono tante cose che hanno portato a un progresso. In alcune invece c’è stato un decadimento: io guardo molta televisione perché mi serve per capire nel nuovo cosa c’è di buono e cosa non va, e spesso trovo che ci sia molto pressappochismo nella recitazione, una scarsa direzione e poco approfondimento dei personaggi. Quindi una certa superficialità che indubbiamente non c’era negli sceneggiati di mio padre: così come lo studio dell’opera che si va a intraprendere deve comportare appunto un notevole approfondimento del testo, ciò che oggi – lo vedo dai risultati – sicuramente non accade. C’è anche un offerta molto più ampia: il che è senz’altro un bene, perché si può scegliere molto di più; mentre la televisione con cui ha cominciato mio padre non aveva concorrenza di altri canali importanti.

 

A quindici anni dalla scomparsa, cosa Le manca maggiormente di Sandro come padre e come regista?

 

Come padre sicuramente mi manca primariamente il suo senso dell’umorismo, perché lui è stato uno degli uomini più spiritosi ed autoironici che io abbia mai conosciuto; nonché il suo senso pratico della vita, che lo ha portato – pure nei confronti del lavoro – a non prendersi mai troppo sul serio e a non pensare di essere una persona indispensabile, restando bene coi piedi per terra. Era un padre molto moderno: mi ha sempre lasciato molto libera in tutte quelle che erano le mie scelte, e quindi anche libera di sbagliare senza rinfacciarmelo; sorreggendomi poi nel momento in cui ho deciso di intraprendere una professione che era nel medesimo ambito, pur non essendo la stessa. Io ho iniziato con lui, facendo tutte le varie tappe: da volontaria ad assistente alla regia, da segretaria di edizione ad aiuto regista; finché non ho messo su una mia casa di produzione. Come professionista innanzitutto mi mancano le note in casa che arrivavano dal suo studio quando studiava le opere liriche, perché comunque passavano oltre le porte ed erano ore e ore di piacevolissimo ascolto; mi manca il suo parlare poco di lavoro in casa, perché non voleva annoiarci. Più che altro come moto affettivo, mi manca di non poter più vederlo lavorare, giacché c’era molto da imparare sia dal punto di vista umano che da quello professionale: le atmosfere sui suoi set erano sempre molto cordiali e gradevoli. Mi manca il fatto di vedere come si riesce a instaurare con gli attori un rapporto di stima e di dedizione assoluta da parte di questi ultimi senza esercitare alcuna pressione o prova di forza: soltanto con quello che è il fascino delle parole, perché lui era – sia come uomo che come regista – un grande affabulatore, e quindi era difficile rimanere insensibili ai suoi racconti.

 

 

 

 

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