Elisabetta Villaggio: “In viaggio attraverso la letteratura, il teatro e il cinema: accanto a mio fratello Piero, con nostro padre Paolo sempre nel cuore”

Inviato da Radiophonica il Mar, 17/12/2019 - 08:01

A cura di Alessandro Ticozzi

 

La scrittrice e regista racconta la genesi delle sue opere: non mancando di ricordare alfine i talenti più nobili del celebre padre, con una nota positiva per il volume autobiografico del fratello.

 

Com’è nata – e come hai successivamente coltivato – la tua passione per la scrittura?

Quand’ero alle medie mi piaceva scrivere. L’italiano era una delle mie materie preferite, e – con altre due amiche – avevo aperto un giornalino di scuola redatto con l’Olivetti Valentine che m’aveva regalato mio padre. Tra il liceo e l’inizio dell’università, ho poi steso una serie di racconti che sono rimasti nel cassetto – anche perché successivamente sono andata a vivere in America –, e ho ritirato fuori questi scritti più o meno una decina di anni fa.

Cosa ti ha incuriosito a tal punto della fine di Marylin Monroe da dedicargli un saggio e uno spettacolo teatrale?

È un tipo di donna che mi affascina perché la vedo una persona grintosa che – nonostante le proprie debolezze – si è fatta completamente da sola: pur avendo dei momenti di depressione, prendeva la vita di petto per ottenere un riscatto rispetto al suo inizio che la vedeva nascere povera, senza padre, con un nonno alcolizzato e la nonna matta – così come la madre, finita in manicomio. Soprattutto in quell’epoca, per una bambina era una partenza molto difficile: non era una donna bellissima, ma di grande fascino e soprattutto molto caparbia. A meno che tu non abbia i mezzi di Broadway a tua disposizione, mettere in piedi uno spettacolo teatrale narrando una vita così travagliata è un po’ complicato. Io ho scelto di raccontare i tre giorni di vita finali in una versione intima tra le mura domestiche, accanto alle persone che l’hanno circondata negli ultimissimi periodi. Poi ho ovviamente fornito una mia interpretazione e mi sono documentata tantissimo, ma – sul fatto che si sia suicidata o l’abbiano ammazzata – dò appunto la mia versione, perché la certezza dei fatti non si saprà mai. Ad incarnare Marylin è stata Agnese Nano, già tra le protagoniste di quello che sarebbe stato il mio esordio nel lungometraggio: Luna e le altre. Il film era girato quasi tutto, l’avevo anche montato. Mancava l’ultima settimana di riprese quando il produttore è scappato coi soldi: quindi non siamo riusciti a finirlo, nonostante io abbia fatto di tutto e di più per cercare di portarlo a casa.

Cos’hai provato invece nel dirigere Milena Vukotic – che fu appunto la Signora Pina nella celebre saga cinematografica fantozziana che vide tuo padre protagonista – in un altro monologo scenico, stavolta dedicato a Virginia Agnelli?

Conoscevo Milena da anni a livello personale e lavorarci insieme è stata una bellissima esperienza, perché – al di là del fatto che sia una bravissima attrice, come sappiamo già tutti – è una donna profonda e intelligente, nonché una superprofessionista come ne ho visti pochi al mondo. Si trattava di un monologo sulla figura di Virginia Agnelli dove lei non doveva imparare niente a memoria: entrava in scena, si sedeva su una poltroncina e raccontava la sua storia come se leggesse un diario. In quel periodo lei stava girando la fiction Un medico in famiglia. Ci vedevamo il sabato o la domenica – anche in orari un po’ inconsulti – per parecchio tempo, finché non è stata più che sicura che andasse tutto bene. Ho avuto l’onore e il piacere di passare dei lunghi pomeriggi da sola con lei. Ovviamente provavamo, però – per un lavoro del genere – tu devi anche entrare in empatia con la persona. Abbiamo fatto grandi chiacchierate, durante le quali mi ha raccontato la sua vita. È stato davvero molto piacevole. Mi ricordo che c’era un passaggio di poche righe dove lei diceva di non ritrovarsi, e che pertanto dovevo riscrivere. Tornando a casa pensavo come fare, finché – dopo due o tre volte – mi ha detto che avevo colto il punto giusto. Una persona veramente meravigliosa. Per me è stata un’autentica fortuna fare un lavoro del genere con una professionista unica come lei. A differenza di Marylin, Virginia Agnelli avrebbe teoricamente potuto avere una vita facilissima – essendo nata bella, simpatica e ricchissima – mentre è rimasta vedova a 36 anni di un marito morto in circostanze tragiche, con sette figli da crescere e il suocero, il Senatore Giovanni Agnelli, che le andava contro. Trovandoci poi sotto il regime fascista, per una donna – anche se faceva parte della famiglia Agnelli – era dura vivere da sola: le dicevano che i figli erano illegittimi salvo i primi, quando lei ha mantenuto con loro un legame fortissimo; tant’è che il Senatore a un certo punto ha capitolato di fronte a Virginia per la custodia dei suoi figli, pensando che dovesse pur avere qualcosa di buono se le erano così attaccati. Sono rimasta affascinata da Marylin e Virginia: due donne morte giovani e in situazioni drammatiche ma comunque attaccate ad una vita che volevano costruirsi autonomamente, senza attenersi alle regole. Non erano due pazze, anche se potevano sembrarlo per come si comportavano. Tra l’altro erano entrambe dei Gemelli come me – e infatti a un certo punto ho pensato non fosse casuale mi fossi innamorata di questi personaggi, ritrovandomi idealmente in loro.

Dai romanzi Una vita bizzarra e La Mustang rossa alla favola In viaggio con Poldina e alla “passeggiata per il quartiere” Flaminio che passione, qual è stato invece il tuo approccio alla narrativa?

Una vita bizzarra è il mio primo romanzo: prima di mettermi a scriverlo, mi sono chiesta se ero in grado di farlo. Un conto è creare un racconto o un’opera teatrale, mentre per un romanzo è più complicato. Nonostante io sia una che ama dormire, durante il periodo di scrittura mi svegliavo alle quattro o cinque del mattino restando attaccata al computer tutto il giorno. È una cosa travolgente: a un certo punto ti coinvolge così tanto da diventare come un figlio appena nato che ti prende ventiquattr’ore su ventiquattro. Pur se solo per un periodo ovviamente – sennò diventi anche psicopatico – , pensi solo a quello: è stata una storia intensa. Poldina in realtà era una favola incentrata sulla mia bambola quand’ero piccola: l’avevo scritta tra la fine liceo e il primo anno di università, insieme a quelle altre che erano appunto rimaste nel cassetto e che poi ho ritirato fuori. L’ho proposta ad un editore, ovviamente riadattandola. È andata così. Il Flaminio è un quartiere di Roma dove io vivo da una quindicina d’anni, e mi piace molto perché è una specie di paesello. Ha mantenuto le caratteristiche del quartiere: non troppo trafficato, è comodo per la posizione strategica e così piccolo da poterlo girare tutto a piedi in un giorno. La scorsa estate ero rimasta nella Capitale e, a un certo punto, ho pensato di buttare giù proprio questa “passeggiata per il quartiere” dove incontri il museo, il baretto, il negozietto e il ristorantino: tutte quelle cose che m’avevano più affascinato del Flaminio. Avevo anche trovato un editore, ma in questo caso ho deciso di autopubblicarmelo: quasi tutte le foto presenti nel libro le ho scattate io col telefonino. L’ho scritto abbastanza velocemente, non per tirar via ma perché volevo farlo uscire per Natale.

Tra l’altro Una vita bizzarra ha la prefazione di tuo padre: pensi in qualche modo di aver ereditato proprio da lui questa capacità di scrittura, per la quale lui giustamente appunto in Russia era considerato il Gogol italiano?

Mi auguro di aver preso da mio padre per lo meno la curiosità e l’interesse per quest’argomento, ma non farei mai paragoni perché c’è un abisso: lui era una persona di grande cultura e bravissimo a scrivere, mentre io spero solamente di aver ereditato qualcosina nel DNA.

Dopo averlo diretto nel primo dei due cortometraggi che segnarono il tuo esordio dietro la macchina da presa, come hai vissuto da figlia l’esperienza di videointervistarlo per il documentario Paolo Villaggio: mi racconto e quale valutazione vi dai rispetto a quello La voce di Fantozzi di Mario Sesti?

Dirigerlo in quel film inedito di cui sopra è stato teoricamente più semplice che non realizzare il documentario: nonostante fosse mio padre e si trattasse di un operazione fatta in famiglia – essendoci io e mio fratello Piero che facevamo le riprese in maniera appunto molto semplice e casareccia, mentre mio figlio lo intervistava – , ero tesissima perché mi sentivo insicura. Mio padre riusciva a mettermi anche parecchio in soggezione: per me è stato più complicato e faticoso da un punto di vista mentale, mentre quello di Mario Sesti – girato in modo professionale con lui che vi recita dentro a tutti gli effetti – è una cosa completamente diversa.

Dopo aver preso parte a numerose pellicole commerciali, come ha vissuto egli a tuo avviso l’esperienza sui set di importanti cineasti quali Federico Fellini, Lina Wertmüller ed Ermanno Olmi, nonché il debutto nell’Avaro di Molière al Piccolo di Milano che successivamente lo portò ad allestire sempre per il palcoscenico l’autobiografico Delirio di un povero vecchio?

In particolare i set di Fellini e di Olmi hanno fatto sì che la critica nostrana e una certa intellighenzia lo vedessero in un'altra maniera: prima da un certo cinema italiano mio padre era considerato un semplice buffone. All’epoca Gillo Pontecorvo è stato sin anche coraggioso ad assegnargli il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia. Oggi tutti lo osannano, ma allora non era minimamente considerato – pur essendo un intellettuale che poteva tenere una lezione di storia all’università, cosa che non sa nessuno. Sicuramente anche lui ha fatto degli errori, avendo girato diversi film tirati via tanto per guadagnare: tuttavia non aveva imparato a recitare o s’era messo a leggere Dante e Dostoevskij – il suo vero mito come scrittore – dopo che l’aveva chiamato Fellini, ma erano elementi già presenti nel suo background. Mio padre ha cominciato la sua carriera a teatro, pur inscenando cose cabarettistiche non retribuite: non c’è arrivato dopo averlo fatto professionalmente. L’avaro era uno spettacolo preconfezionato con altri attori, un regista e una storia vera che andava interpretata; mentre Delirio di un povero vecchio e quelli a seguire erano un incontro col pubblico dove lui andava molto a braccio, servendosi di un canovaccio basilare per raccontare la sua vita e carriera: quindi due cose molto diverse. Mio padre poi sentiva molto il pubblico – che del resto è un’autentica linfa per gli attori quando recitano a teatro. Se c’è un pubblico addormentato hai un certo tipo di reazione, mentre un pubblico che ti segue pimpante lo percepisci maggiormente. Questo non lo diceva solo mio padre, ma l’ho letto e sentito in tante interviste di vari attori.

Parlando invece specificatamente di Piero, come valuti il suo volume autobiografico Non mi sono fatto mancare niente?

Mi è piaciuto molto. Capisco che ha fatto un percorso difficile perché raccontare una storia del genere non è semplicissimo. Devi esporti ad un mondo di haters che ti giudicano perciò, secondo me, è stata un’operazione coraggiosa.

Quale ricordo pensate comunque di serbare entrambi di Paolo come padre e come intellettuale a tutto tondo?

 

Non lo so, ce ne sono tanti. Magari un giorno cammini per strada e vedi una cosa che te lo fa ricordare: poi ovviamente col tempo le cose cambiano e addolcisci quel dolore che esiste ancora oggi, ma che al contempo percepisco con più tenerezza.

 

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