Francesca Ferro: “Mio padre Turi, ‘mattatore’ delle scene nostrane che fu emblema della Sicilia migliore”

Inviato da Radiophonica il Dom, 05/01/2020 - 19:03

a cura di Alessandro Ticozzi

L’attrice ricorda il celeberrimo padre: grande interprete del teatro pirandelliano (e non solo), nonché incisiva presenza sugli schermi nazionali; ma anche etico e affettuoso genitore.

 

 

Una volta compiuto il suo tirocinio sulle scene siciliane del teatro dialettale, Turi s'impose definitivamente nel 1957 con Liolà di Pirandello: come mai egli rimase particolarmente legato al grande drammaturgo agrigentino, tanto da interpretarne molti lavori al Teatro Stabile di Catania e in altri teatri con registi prestigiosi quali Strehler (I giganti della montagna, 1966) e Cobelli (Sei personaggi in cerca d'autore, 1980)?

Pirandello e mio padre erano praticamente legati a doppio filo, pur essendo nati in epoche diverse: papà sentiva di dovergli dare voce e credeva di poterlo fare al meglio in tutte le sue forme. Liolà, Il berretto a sonagli, I giganti della montagna e Sei personaggi in cerca d’autore sono espressioni di Pirandello totalmente differenti l’una dall’altra, che vanno da una versione della Sicilia molto romantica e scanzonata ad opere più cervellotiche che rispecchiano appieno l’evoluzione della filosofia pirandelliana. Da quando ha interpretato Liolà, mio padre s’è innamorato di quest’autore – che riteneva il più rappresentativo della propria terra – e sentiva i suoi personaggi come se fossero una seconda pelle. Ad esempio ha interpretato Ciampa – il protagonista del Berretto a sonagli – da quando aveva 35 anni fino ai 75: addirittura ha creato lui stesso il proprio costume di scena, mantenendolo attraverso gli anni con tutti i registi che poi l’hanno diretto, da Lamberto Puggelli a mio fratello Guglielmo Ferro. Era come se i personaggi gli aderissero veramente addosso, pur così differenti tra di loro: Liolà e Ciampa non hanno quasi nulla in comune, salvo quell’identico autore che mio padre ha amato in tutte le sue versioni fino all’ultimo. Infatti alcuni critici dissero che Pirandello aveva creato Ciampa per Turi Ferro, che effettivamente non era ancora nato quando egli metteva in scena Il berretto a sonagli per la prima volta.

 

Cosa spinse Turi a recitare anche in opere di Shakespeare (Titus Andronicus, 1983) e Molière (Il malato immaginario, 1991)?

Anche se la sicilianità faceva parte di mio padre in modo imprescindibile, per un attore volto ad una continua sperimentazione come lui era fondamentale mettersi alla prova confrontandosi anche con autori non siciliani – e neppure italiani – che però erano dei mostri sacri dalla poetica universale. Fu Gabriele Lavia – che ai tempi era un giovane regista pieno di talento – che lo convinse a fare Tito Andronico: è stato un bellissimo connubio perché alla fine è venuto fuori un personaggio molto interessante in quanto autenticamente sanguigno, a differenza dei classici personaggi shakespeariani che a volte rimangono puramente epici e letterari. La stessa cosa con Molière, che è stato presentato da mio padre con qualche sfumatura della sua Sicilia: lui poi rappresentò pure Il servo di scena e Il visitatore di Schmitt con Kim Rossi Stuart, e comunque – anche andando avanti con l’età – ha sempre sentito il bisogno di confrontarsi con autori lontani dalla tradizione nella quale appunto lui è nato.

 

Molto attivo pure in televisione (I racconti del marescialloE non se ne vogliono andare), come visse Turi il periodo di grande popolarità cinematografica che ebbe dopo il successo di Malizia (1973)?

Allora gli sceneggiati erano fatti molto bene, ed erano tutti comunque girati con bravi attori spesso d’estrazione teatrale: per I racconti del maresciallo scelsero mio padre essendo un interprete molto espressivo nonché rappresentativo di quello che può essere l’uomo meridionale positivo che porta un po’ di sole al Nord senza le cose troppo negative del Sud, in un connubio di legalità e simpatia. Anche per E non se ne vogliono andare chiamarono papà ad affiancare Virna Lisi perché simboleggiava quella famiglia tradizionale allargata raccontata nella fiction: erano storie pulite e senza forzature – diverse da quelle attuali – , e pure quella fu un esperienza molto interessante. Malizia è stato il film più commerciale che lui fece: in quegli anni lo definivano erotico, ma oggi considerarlo tale fa quasi ridere perché in fondo non aveva niente di così spinto. Essendo comunque per il periodo abbastanza scandaloso, fece un enorme successo e lo consacrò personaggio popolare. Tuttavia mio padre con lo schermo – grande o piccolo che sia – ha avuto poca frequentazione perché lui preferiva in ogni caso girare in tournée: iniziando questa ad ottobre e finendo a maggio, è difficile farla coincidere con gli impegni lavorativi anche cinetelevisivi.

 

Cosa Le manca di più di Turi come padre e come attore oggi?

 

Come attore mi manca il mostro sacro che era: forse uno degli ultimi del suo periodo. Il teatro attuale è ormai concepito in maniera diversa, e dunque una figura mattatoriale come la sua oggi quasi non esiste più: alludo ai grandi come Gassman, Albertazzi o gli altri contemporanei di mio padre. Queste eccezionali figure carismatiche come mio papà secondo me mancano per il bagliore e la luminosità che donavano. Parlando di Turi Ferro come padre, io sono stata l’ultima figlia: tra me e mia sorella ci sono ventitré anni di differenza, e quindi – essendo nata nella parte finale della sua vita – sono stata quella più coccolata e quasi viziata perché la viveva veramente come una gioia immensa. Anche se fisicamente presenti, a volte i padri non danno l’affetto che dovrebbero: invece lui – nonostante facesse un lavoro che spesso lo portava fuori – mi ha sempre fatto sentire molto intensamente la sua presenza, insegnandomi il rigore e la serietà sul lavoro. Era un uomo integro che non si è mai mescolato con la politica: non ha mai chiesto favori né voluto scendere a compromessi di alcun genere. Nel periodo in cui era attivo certo questo poteva ancora ammettersi, mentre oggi forse meno: però sono contenta che abbia potuto vivere la sua arte senza bisogno di corromperla con nessun tipo di interesse, e conseguentemente felice di aver ricevuto da lui un eredità che nell’adolescenza può essere pure un po’ pesante – dovendoti confrontare con una figura genitoriale così importante – ma che poi in età adulta rimane sicuramente un valore aggiunto perché ti rendi conto di quanto ti ha trasmesso.

 

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