Omero Antonutti: La mia fortunata carriera nel segno del cinema d’autore più ricercato

Inviato da Radiophonica il Mer, 05/02/2020 - 08:39

a cura di Alessandro Ticozzi

 

A circa un mese dall’uscita postuma in sala di Hammamet (stupendo l’estremo cammeo nei panni del padre di Craxi-Favino: ruolo – quello del genitore austero – che fu una costante del suo percorso cinetelevisivo) e a due esatti dalla scomparsa, la mia intervista al grande attore udinese, realizzata un biennio or sono in occasione della propria presenza al Festival I Mille Occhi di Trieste.

 

 

Dopo essersi diplomato alla scuola di recitazione del Teatro Nuovo di Trieste, dal 1962 al 1976 Lei si è dedicato all'attività teatrale con Luigi Squarzina (allo Stabile di Genova), Luca Ronconi e Sandro Bolchi: come ha vissuto tali trascorsi scenici?

 

Originariamente io non pensavo per niente a fare l’attore: volevo solamente apprendere dal teatro come si parla perfettamente l’italiano, essendo io all’epoca impegnato – in quanto perito industriale – ai Cantieri Riuniti dell’Adriatico, ora Italcantieri. Alla fine di ogni mese dovevo riunire i miei colleghi per discutere dei lavori che dovevamo fare: sono appunto passato al teatro proprio perché m’avevano detto che – oltre ad assimilare la dizione – dovevo frequentare tutti gli altri corsi. Quindi Squarzina venne a Trieste per sovrintendere un nostro spettacolo, chiamandomi a Genova dopo avermi visto in scena: così continuai con lui per parecchi anni. Squarzina è stato il mio maestro: m’insegnò come recitare, ed ebbi un discreto esito già da allora. Quando poi venne da noi Ronconi a firmare la regia di uno spettacolo da Ibsen, egli mi fece fare una prima cosa in televisione che si chiamava John Gabriel Borkman. Con Bolchi invece interpretai un testo di Svevo a Trieste: era già un attivissimo regista televisivo, mentre io raramente praticai il piccolo schermo. Quando stavo impersonando Cassio in Giulio Cesare – testo che mi diede un grosso successo personale – , fortunatamente a teatro mi videro i fratelli Taviani, che mi scelsero per passare al cinema.

 

 

Che ricordo serba dell’esperienza vissuta sotto la loro direzione in pellicole quali Padre padrone (1977), La notte di San Lorenzo (1982), Kaos (1984) e Good Morning Babilonia (1987)?

 

È stata una gioia lavorare con loro in quanto m’insegnarono il cinema, dicendomi che ogni inquadratura era una specie di lastra radiofotografica: per cui non dovevo muovermi, sbattere gli occhi e fare tutte quelle piccole cose che naturalmente in teatro vengono evidenziate, in quanto il corpo si deve muovere di più e la voce dev’essere portata al massimo – cosa che invece sullo schermo non è assolutamente possibile. Devo al loro insegnamento l’aver potuto apprendere questa nuova professione.

 

 

Come si è trovato invece a lavorare con il greco Angelopulos  in Alessandro il Grande (1980)?

 

Quando vidi il suo primo film – La recita, la storia di un gruppo di attori teatrali che attraversavano nella loro tournée la realtà di tutta la Grecia – , ho pensato che Angelopulos  era un grande: talmente grande da metterci un anno per convincersi che io ero adatto a fare questo personaggio così duro da mettere paura anche ai suoi stessi seguaci. La figura storica non c’entrava assolutamente niente: lui era un famoso bandito che – con i propri addetti – conquistava le terre per darle al popolo. Angelopulos è uno di quei registi diversissimi da tutti gli altri: essendo uno che mangia solo cinema, quando inizia a fare un film deve continuare a girare cascasse pure il mondo. Perciò ho avuto dei grossi problemi soprattutto per comunicare: quando seppi che alcuni ragazzi greci parlavano italiano, è stato l’unico momento in cui potevo utilizzare lì il mio idioma. È stato impegnativo anche perché tutto il girato durava per lo meno dieci ore: quindi dovette tagliare, arrivando così a tre. Il film passò a Venezia con enormi problemi: dopo il primo tempo c’era pochissima gente presente in sala, perché – con la scusa dell’intervallo – questa usciva a fumare o a bere un calice per tenersi sveglia. È un film importante ma molto difficile: tuttavia è stato proprio grazie ad Angelopulos che l’ambiente del cinema ha imparato a conoscermi.

 

 

Sempre a proposito di padri tormentati, Lei ha interpretato figure simili anche nel telefilm L'isola (1983) e nello sceneggiato Mio figlio non sa leggere (1984), rispettivamente tratti da un racconto di Giani Stuparich e dall'omonimo romanzo di Ugo Pirro: cosa L’ha spinta ad accettare questi ruoli così complessi?

 

A un certo momento decisero che io dovevo fare il padre: quando uno ha successo con un personaggio, poi tutti i registi ti offrono sempre quello. Così accettavo di interpretare quei padri che mi davano la possibilità di variare a mia volta tale figura. Per esempio nello sceneggiato autobiografico da Pirro ero un padre che aveva un figlio lento nel muoversi e nell’apprendere: scoprì così l’esistenza della malattia che l’affliggeva grazie ad un libro che gli indicò la moglie americana. Il regista era Franco Giraldi: un triestino come me che ho conosciuto proprio in quell’occasione, diventandone poi amico. L’isola invece è l’unico film che ho recitato nel dialetto istriano di mia appartenenza: lo ha diretto Pino Passalacqua, cui chiesi come mai gli era venuto in mente di trasporre Stuparich. Mi rispose che anche lui aveva un amico del Nord che diventò padre: accettai così ben volentieri. È un lavoro bellissimo che mi diede la possibilità di incontrare anche Fellini, il quale straordinariamente espresse delle cose meravigliose sulla scena dove io ero moribondo con accanto il figlio venuto a trovarmi.

 

 

Lei ha inoltre lavorato con Marco Bellocchio (La visione del sabba, 1988), Ermanno Olmi (Il segreto del bosco vecchio, 1993; Genesi-La creazione e il diluvio, 1994), Gérard Corbiau (Farinelli-Voce regina, 1994), Michele Placido (Un eroe borghese, 1995), Franco Giraldi (La frontiera, 1996), Massimo Spano (La casa bruciata, 1998): quali differenze trova vi siano tra questi cineasti?

 

Ogni regista ha un modo di girare che riporta il suo temperamento, come del resto tutti noi portiamo il nostro carattere in qualsiasi professione svolgiamo. Nella Visione del sabba – un film secondo me non riuscito – feci davvero una particina in quanto Bellocchio promise di farmi lavorare in un suo successivo progetto ben più importante, cosa che poi non avvenne. Di Olmi divenni amico dopo aver prestato la voce al Vento Matteo nel Segreto del bosco vecchio, cosicché dopo qualche tempo mi chiamò per incarnare Noè in Genesi-La creazione e il diluvio: è forse l’uomo più importante che ho incontrato nella mia vita di attore, perché era una persona speciale che sapeva dare tanto. Ho appreso molto da lui: era un autentico creatore dei prodotti che firmava. Accettai poi d’interpretare Farinelli-Voce regina in quanto Corbiau mi chiamò insieme ad altri due italiani co-protagonisti: fu tra l’altro un film bellissimo. Giraldi adesso è insieme a me al festival I Mille Occhi di Trieste, essendo lui premiato alla carriera: per l’occasione proietteranno proprio La frontiera, dove io impersonavo il narratore che raccontava la storia dei due giovani protagonisti. Michele Placido rappresentò per me una scoperta meravigliosa: il suo film sul caso Ambrosoli lo considero una delle cose più belle che ha fatto. Lavorava animato dal desiderio di coinvolgere gli altri, e con me c’è riuscito proprio del tutto: ci siamo infatti trovati in un gruppo dove tutti svolgevano più del loro mestiere d’attore, aiutando a portare le luci e non conteggiando affatto le ore di attività. La casa bruciata di Spano era una produzione televisiva che siamo andati a girare addirittura in Venezuela: interpretai comunque un bel personaggio. Purtroppo con i registi non ho avuto rapporti continui: quindi di loro non posso dire granché.

 

 

Cosa L’ha indotta nel 2005 a doppiare Michel Bouquet in Le passeggiate al Campo di Marte di Robert Guédiguian?

 

Bouquet era quasi identico al Presidente della Repubblica Francese, per cui ciò mi piacque subito molto. Guédiguian vide poi il suo film sonorizzato in italiano e disse al direttore del doppiaggio: “Faccia i complimenti al signor Antonutti perché non solo è riuscito ad indovinare la voce, ma addirittura sembra sia lui l’interprete originale”. La cosa mi aggradò parecchio in quanto generalmente i registi non vedono mai i propri film doppiati: tra l’altro io non amo granché il doppiaggio perché è come togliere qualcosa all’attore. Lo facevo quando non lavoravo, e allora anche quello serviva per tirare avanti: ma personalmente doppiare non mi è mai piaciuto.

 

 

Da I banchieri di Dio - Il caso Calvi (2002) di Giuseppe Ferrara a Ricordati di me (2003) di Gabriele Muccino, da N (Io e Napoleone) (2006) di Paolo Virzì a La ragazza del lago (2007) di Andrea Molaioli e Miracolo a Sant'Anna (2008) di Spike Lee, cosa L’ha persuasa nei Suoi titoli dello scorso decennio ad alternare cineasti consolidati ad altri allora emergenti?

 

Era un onore – oltre che un piacere – lavorare con Spike Lee: sgobbava come un pazzo quando si trattava di girare la sequenza, dopodiché scherzava come se avesse realizzato una porcheria. Questo mi piaceva tanto perché sono anch’io un po’ così: non come quegli attori che rimangono sempre dentro il personaggio, quale fu lo straordinario Gian Maria Volonté. Siccome sapevano che facevo sempre il cattivo, quando venne a mancare pensavano che io potessi sostituirlo: ma lui era irraggiungibile. È il caso de I banchieri di Dio: Ferrara era per un cinema politico-civile che apprezzavo assai, e per questo eravamo diventati molto amici. Mi ha soddisfatto interpretare Calvi perché gli somigliavo parecchio: poi l’immedesimarsi nei personaggi è sempre questione di sforzi. In Ricordati di me ho pronunciato solo una frase in qualità di voce narrante: dopodiché Muccino è andato negli Stati Uniti e non l’ho più visto. Paolo Virzì era divertente: perciò pensavo finalmente di fare un ruolo comico, e invece anche quella volta ho interpretato un personaggio drammatico quale un professore dell’epoca che insegnava ad un suo allievo come uccidere il dittatore Napoleone. Anche nella Ragazza del lago facevo il ruolo drammaticissimo di un padre in carrozzella con un figlio mezzo toccato, sospettato di aver appunto annegato questa ragazza: accettai per sostenere l’esordiente Molaioli in un film che mi sembrava molto carino ed emblematico.

 

 

Che bilancio trae della Sua vita privata e professionale?

 

Della mia vita professionale sono contento, anche se per essere popolari bisogna fare determinati film che non sono quelli da me interpretati: ho infatti cominciato coi fratelli Taviani, seguendo sempre la linea di un cinema d’autore che riguarda il comportamento dell’uomo tra bontà e cattiverie. Ho passato anche ben dieci anni in Spagna, partecipando a bellissime produzioni difficilmente giunte nelle sale nostrane.

 

 

Ha qualche progetto per il futuro?

 

Per il momento no: se mi chiamano, io faccio ancora doppiaggio. Non m’impongo: pronuncio soprattutto voci fuori campo nei concerti d’opera. Quando c’è la possibilità di spiegare cosa stanno suonando, lo svolgo ancora volentieri perché si tratta di leggere: la mia memoria è infatti ormai labile. Quindi riposo assoluto: basta la salute, come dice la poesia.

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