Maurizio Scaparro: “Il mio teatro, volto ad una continua fusione di spunti e linguaggi con lo sguardo sempre orientato all’Europa”

Inviato da Radiophonica il Gio, 05/03/2020 - 21:02

a cura di Alessandro Ticozzi

 

Il grande regista teatrale rievoca la sua ricca carriera, tra spettacoli di prosa e lirica – segnati talvolta da interessanti esperimenti cinetelevisivi – e prestigiosi incarichi dirigenziali ricoperti in Italia e all’estero.

 

Dopo essere stato critico cinetelevisivo e organizzatore teatrale, com’è arrivato nel 1963 a firmare il Suo primo spettacolo (Festa grande d'Aprile di Franco Antonicelli) per quel Teatro Stabile di Bologna di cui era condirettore?

Il passaggio dalla critica teatrale a quella televisiva – fino alla vicinanza ad un teatro stabile come quello di Bologna, che nasceva in quegli anni – mi ha portato quasi contemporaneamente ad affrontare con molta paura la parola “regia”, che sino allora avevo seguito solo da recensore: tutta un'altra cosa, perché il critico non è in grado di capire come nasce veramente un allestimento. Quell’anno trascorso a Bologna mi ha consentito di “rubare” il mestiere, verificando alcune regie di Puecher – che allora dirigeva alcuni spettacoli del Teatro Stabile di Bologna – e avendo un rapporto più diretto con gli attori: contemporaneamente questo stabile insorgente aveva la possibilità di tendere sia al teatro classico che a quello civile, a me più congeniale. Così è nata Festa grande d'Aprile di Franco Antonicelli, la mia prima vera regia: un testo che volli intenzionalmente un po’ didascalico, accompagnato dalle bellissime e pertinenti musiche di Sergio Liberovici. Quindi mi sono buttato a pesce in questa nuova avventura, nella quale ancora mi trovo: una regia che mi fa piacere sia scaturita appunto sotto l’impegno di ricerca civile. Rammentando quei giorni, ricordo anche il tipo di pubblico che veniva e le emozioni di chi aveva appena vissuto la Resistenza: l’Emilia-Romagna è sempre stata una regione molto attenta ai movimenti politici.

 

Lei ha diretto dal 1969 al 1975 lo Stabile di Bolzano e poi la compagnia del Teatro Popolare Italiano: cosa ricorda di queste due esperienze?

Quello di Bolzano è il più vecchio teatro stabile d’Italia, fondato da Fantasio Piccoli addirittura prima del Piccolo di Milano: quando mi chiamarono a dirigerlo, ho avuto per un attimo naturalmente una reazione di piacere – giacché è il mio lavoro dirigere un teatro stabile – ; ma poi anche di paura, perché Bolzano è un po’ lontana dalla natià Roma, mia naturale sede di vita, lavoro, amori, gioie e dolori. Dunque è sorto questo teatro di frontiera, dove abbiamo lavorato molto bene: tuttora ho rapporti parecchio stretti con amici locali come Marco Bernardi, l’aiuto regista dell’Amleto che feci in quella circostanza con Pino Micol – uno dei miei spettacoli più importanti – e che mi è succeduto in qualità di direttore del Teatro Stabile di Bolzano. È una dirigenza che ricordo con grande piacere: quando la lasciai, era perché in realtà sentivo sommessamente il bisogno di tornare dal confine a Roma. Così è nata la Compagnia Italiana, un gruppo riunito di attori, registi e scenografi: cosa che allora succedeva con maggiore frequenza rispetto ad oggi. Laddove non c’era un teatro stabile, c’era la forma cooperativistica: nascevano siffatti segni di vita teatrali che mi hanno portato ad elevati risultati quali il Riccardo II.

 

Negli stessi anni cosa L’ha spinta a dirigere spettacoli quali Chicchignola di Ettore Petrolini (1969), Lena di Ludovico Ariosto (1971), Amleto (1972) e Riccardo II (1975) di William Shakespeare, Cyrano de Bergerac (1977) di Edmond Rostand?

Oltre alle due da me già menzionate messinscene shakespeariane, tra questi amo ricordare soprattutto il primo e l’ultimo che hai citato: mi faceva piacere che Petrolini fosse visto a Bolzano in quanto simbolo di una Roma apparentemente dialettale, ma in realtà di grande spessore culturale e ironico. Presentare lì Chicchignola mi sembrava proprio una sfida, come poi effettivamente è stata: ci hanno accolto calorosamente sia la maggioranza italiana che la popolazione tedesca, che anzi frequentava il teatro pur se in lingua italica. Il Cyrano di Rostand è uno spettacolo che ha avuto grande fortuna, consentendomi di lavorare ancora con Pino Micol: rappresenta un momento fondamentale del mio lavoro di regista in Italia.

 

Nel 1983 Lei è diventato direttore artistico del Teatro Stabile di Roma, con cui ha prodotto il film DonChisciotte (1984), parte di un programma – ispiratoLe dal romanzo di Miguel de Cervantes – composto anche da uno spettacolo teatrale presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto e da un ciclo televisivo in cinque episodi: cosa L’ha spinta ad affrontare un progetto così corposo?

Essere approdato a Roma significava qualcosa di molto importante, perché era il ritorno nella mia città che non ho mai abbandonato: ma avere la possibilità e l’onore di dirigere il teatro più importante d’Italia – dopo il Piccolo di Milano – era chiaramente un onerosa responsabilità. Dei tanti progetti di quel periodo, tu ne riferisci uno che mi pare giusto ricordare in quanto legato ad uno studio multimediale che mi sta molto a cuore e che non era mai stato fatto prima: scorgere di uno stesso testo innanzitutto la matrice letteraria, per poi – una volta scopertane la valenza scenica – farne un film e poi un edizione televisiva. Erano tre prospettive di uno stesso campo: tale visione ipermediale è stata un esperienza per certi aspetti irripetibile che mi ha dato grandi soddisfazioni. Il Don Chisciotte andò anche a Los Angeles e San Francisco, dove fu presentata la prima assoluta della versione cinematografica: dopodiché la compagnia fece anche la rappresentazione dello spettacolo teatrale. Fu una completa novità: tuttora viene ricordato come un prodotto che serve a discutere le varie forme di spettacolo, unendole e non dividendole.

 

Nel 1988 Lei è stato nominato presidente dei Teatri Stabili Italiani e nel 1992 è stato chiamato come consigliere teatrale all'Expo di Siviglia: come ha vissuto questi due incarichi così prestigiosi?

Il primo è stato praticamente un riconoscimento al lavoro svolto: era insomma un discorso coordinativo più che artistico. Mentre l’altro premiava il mio impegno europeo, al quale tengo moltissimo: l’essere stato nominato dagli spagnoli direttore delle loro giornate internazionali a Siviglia è stata una cosa di cui ancor’oggi sono assai orgoglioso.

 

Cosa L’ha spinta ad allestire nel 1993 Teatro Excelsior e Memorie di Adriano, ritratto di una voce, tratto da Marguerite Yourcenar?

Teatro Excelsior era una messinscena che ci tenevo a fare da diverso tempo, mentre mi viene da ricordare con maggiore attenzione Memorie di Adriano perché è stato forse lo spettacolo più longevo di Albertazzi: l’ha costantemente ripreso fino alla sua scomparsa, e soprattutto ha avuto migliaia di repliche in tutto il mondo. Era appunto il coronamento del ritratto di una voce: nonché la mia unica possibilità di lavorare con Giorgio, che l’ha sempre considerato uno dei vertici della propria arte istrionica.

 

Dopo essere stato nominato nel 1994 presidente dell'Ente Teatrale Italiano e l'anno successivo direttore artistico degli spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza e direttore del Teatro Stabile Biondo di Palermo, cosa L’ha spinta nel 1996 a portare in scena per La Fenice di Venezia L’heure espagnole di Maurice Ravel?

In quel periodo continuavo in maniera sporadica a occuparmi di lirica: il rapporto con un teatro meraviglioso come La Fenice mi ha permesso di fare un esperienza alla quale tenevo moltissimo, e che ogni tanto si riaffaccia nella mia vita di regista.

 

Nel 1998 – dopo la regia de Il Gabbiano di Anton Čechov per il Teatro Eliseo di Roma, di cui aveva assunto la direzione l'anno prima – Lei si è dedicato all'allestimento teatrale del Viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe: cosa L’ha spinta nello stesso anno ad allestire due opere così diverse?

Il Viaggio in Italia di Goethe non vale, in quanto praticamente non l’ho fatto io: entrambe le regie segnano comunque un periodo in cui – da romano – guardavo molto all’Europa.

 

Sempre nel 1998 Lei ha assunto la direzione artistica del Théâtre des Italiens di Parigi, con il quale ha iniziato una grande produzione di spettacoli come La Venexiana di Anonimo del '500, con Claudia Cardinale (2000), Romeo e Giulietta, di William Shakespeare (2002), e l'importante progetto triennale dedicato al mito di Don Giovanni, programmato dal 2001 al 2003, che comprende convegni, mostre, spettacoli e coinvolge – oltre alla Francia – anche l'Italia e la Spagna: c’è dunque una vocazione europeista nel Suo teatro?

Come dicevamo sopra, in quel periodo l’influenza europea è stata totale: non solo perché per forza di cose mi capitava di guardare le tante possibilità che fortunatamente mi si offrivano – ovviamente non accettandole tutte, perché sarebbe stato sbagliato – ; ma anche perché capivo come Francia, Italia e Spagna fossero in realtà tre punti di riferimento della mia vita artistica, sia nella scelta degli spettacoli che soprattutto nel piacere di toccare con mano una realtà teatrale affascinante sotto molti aspetti.

 

Cosa L’ha spinta nel 2004 a dirigere un adattamento dei Memoires di Carlo Goldoni, mentre nel 2005 la Bohème di Puccini?

La tensione all’Europa porta con sé pure certe scelte che non possono quindi essere unicamente italiane: i Memoires ricordano come un grande uomo di teatro quale Goldoni lascia Venezia, scrivendo in pur pessimo francese quelle memorie che testimoniano la forza di un uomo – diventato francese suo malgrado – che in quei giorni vive nel ricordo della città natale che non riesce a dimenticare, ma in cui non ha voluto mai più ritornare. La Bohème è stata un avventura molto fortunata: una componente essenziale di questo spettacolo che ho fatto a Torre del Lago è la presenza di uno scenografo come Folon, che ha disegnato una sorta di stupenda tavolozza pittorica raffigurante il pavimento degli artisti che vivevano a Parigi. A distanza di tanti anni, ancor’oggi periodicamente l’opera viene allestita in Italia e all’estero: quindi me ne resterà il ricordo per tutta la vita.

 

Dopo essere stato nominato nel 2006 direttore del settore Teatro della Biennale di Venezia, cosa L’ha spinta nel 2008 a dirigere L'ultimo Pulcinella?

Il rapporto con la Biennale di Venezia è una costante che ancora prosegue: L’ultimo Pulcinella è invece un film metateatrale che ho inteso costruire su misura per Massimo Ranieri, in ricordo del nostro vecchio rapporto.

 

Ormai verso i novant’anni, che bilancio trae della Sua vita personale e professionale?

Ho avuto la fortuna di lavorare molto: mi sono state date delle opportunità incredibili. Mi sento davvero privilegiato: seguendo il motto “aiutati che Dio t’aiuta”, ho fatto ogni cosa per conquistarmi tutto ciò; però il fatto che tuttora serbo diverse curiosità mi fa sperare di poter costruire ancora nuovi spettacoli per un pubblico che – in mezzo a questa tecnologia imperante – ha molto più bisogno di teatro rispetto a me.

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