Mariano Rigillo: “Il mio eclettico vissuto sui palcoscenici (e non solo), con Napoli sempre nel cuore”

Inviato da Radiophonica il Sab, 07/03/2020 - 16:19

a cura di Alessandro Ticozzi

 

 Il grande attore partenopeo rievoca alcune delle esperienze più significative della propria carriera, con lo sguardo tuttavia costantemente rivolto a nuovi progetti.

 

Pur avendo interpretato ruoli impegnativi del grande repertorio (dal Figaro di Beaumarchais alla trilogia del “teatro nel teatro” di Pirandello), Lei ha legato il Suo nome a spettacoli quali Masaniello di Armando Pugliese e i due montaggi dei testi di Raffaele Viviani presentati con i titoli Napoli notte e giorno Napoli chi resta e chi parte – a cura di Giuseppe Patroni Griffi – , nei quali si è dimostrato degno erede della grande tradizione istrionica partenopea: ciò Le fa piacere, essendo per di più nativo di Napoli?

Non mi dispiace affatto essere considerato in qualche modo erede e portatore della maestria istrionica napoletana. Il Masaniello di Armando Pugliese mi ha dato certamente una bella popolarità. Sono molto grato alla sorte, che mi ha dato l’opportunità di poter fare quel particolare spettacolo di bella qualità e non solo da un punto di vista formale. Era uno spettacolo di piazza,  si recitava tra la gente: bisognava scrollarsi di dosso tutte le possibili timidezze che noi attori abbiamo, e che in qualche caso sono la ragione inconsapevole della nostra scelta di lavoro. Napoli notte e giorno e Napoli chi resta e chi parte rivelarono un modo nuovo per leggere Viviani, nonché la sua grandezza come autore europeo alla pari ad esempio di Bertold Brecht. Peppino Patroni Griffi ne fu grandissimo regista e per me è stato un vero maestro: lo ricordo con grande affetto, rimpiangendone l’assenza  nel teatro italiano di oggi.

 

Nel 1994 Lei è stato il direttore artistico della XIV edizione del Festival Città spettacolo di Benevento: cosa ricorda di quell’esperienza?

È stata un esperienza molto bella: in quell’anno si dava la circostanza che a Benevento Città Spettacolo potesse essere abbinata una lotteria. Quindi fu anche un occasione per fare un festival leggermente diverso dai soliti. Associai questa lotteria ad una sezione di giovane drammaturgìa italiana e ne venne fuori qualcosa di veramente originale. Inoltre con tutti gli attori che presero parte al progetto su Garcìa Lorca alloggiammo nelle  camere dell’Istituto Agrario dove si provava dal mattino alla sera: fu un vero e proprio “work in progress” di studio e di prove.

Un’esperienza indimenticabile per la crescita artistica di tutti quanti noi, in primo luogo per me e per Michele Monetta che curò tutta la parte mimica dello spettacolo.

 

Purtroppo l’esperienza si fermò a quell’anno. Intervennero problemi di marca politica, e si sa come vanno tali faccende in questo Paese.

Cosa L’ha spinta nello stesso anno a dirigere Festa para un Gentilhombre, uno spettacolo composto dai tre frammenti di García Lorca Lamento per la morte di IgnazioPoeta a New York e l'inedito Aspettiamo cinque anni?

Individuammo una fabbrica di mattoni che era stata chiusa e immaginammo di ambientare in questo spazio uno spettacolo dedicato alle opere di Federico Garcìa Lorca, una specie di opera omnia di questo autore. Il pubblico entrando nel cortile della fabbrica si trovava in una piazza spagnola con toreri e donne che passeggiavano: a un certo punto al suono delle trombe si assisteva ad una corrida danzata in una piccola arena che avevamo costruito. Dopo la morte del torero, iniziava la proposta poetica di García Lorca col Lamento per la morte diIgnazio: un carro portava il corpo del torero dentro la fabbrica, dove si cominciavano a sentire i versi di Poeta a New York su una strada assemblata con i mattoni rimasti in disuso. C’erano i motociclisti sulle Harley Davidson che vi giravano sopra: a un certo punto calava il silenzio, un  bravissimo chitarrista, Mauro Di Domenico, cominciava a suonare il Recuerdo de la Alhambrae le moto accompagnavano il pubblico in uno spazio dove al centro di una grande tribuna era stato attrezzato, sempre con i mattoni della fabbrica, un palco. Qui veniva rappresentato, per la prima volta in  Italia,  Aspettiamo cinque anni, un testo fortemente surrealista di García Lorca. E qui finiva la serata. Fu la parte centrale di quel festival da me diretto. 

 

Qual è stato poi il Suo approccio nell’affrontare personaggi così complessi quali Enrico IV di Luigi Pirandello nel 1995 e Celestino V in Sulle tavole del tuo cuore di Luigi Maria Musati e Massimiliano Farau, in scena al Festival del Teatro Medioevale e Rinascimentale di Anagni nel 1996?

Enrico IV è un testo che ho sempre voluto interpretare, essendo praticamente quello che mi ha aperto la mente al teatro: mio fratello mi spinse a leggerlo quand’ero ragazzo, e da allora mi è sempre rimasta la voglia di rappresentarlo. Quando nel ’95 finalmente si concretizzò questa possibilità, lo feci con grande entusiasmo e partecipazione perché mi sembrava di ritornare indietro nel tempo. Sulle tavole del tuo cuore era invece un progetto dell’Accademia d’arte drammatica al quale mi fece piacere partecipare, essendo la mia scuola di provenienza.

 

Cosa L’ha invogliata nel 2007 ad interpretare La masseria delle allodole dei fratelli Taviani?

Mi è sempre piaciuto molto il lavoro dei fratelli Taviani che, per fortuna, dopo aver assistito al nostro allestimento de I Giganti della montagna”  di Pirandello mi proposero di partecipare a questo bel film, che ha avuto in Italia poca diffusione per ragioni estranee al cinema. Si vollero evitare complicazioni con la Turchia che era per  entrare nella UE.

Mi piacque molto interpretare quel personaggio, rappresentava il nonno della scrittrice Antonia Arslan. Ci trovammo molto bene a lavorare insieme e da allora ci siamo poi trovati  ancora insieme per altre esperienze.

 

Ormai ottuagenario, che bilancio trae della Sua vita personale e professionale?

I bilanci si traggono in prossimità della fine di un percorso:  non voglio pensare sia questo il mio caso. Ho ancora tanto da fare.

Posso dire di essere abbastanza contento di tutto quello che ho fatto: ma guardo avanti, non indietro. Aspetto ancora per fare un bilancio definitivo.

 

Ha qualche progetto per il futuro?

È una domanda cui è difficile rispondere: di progetti ciascuno di noi ne ha sempre più di uno, e in realtà non tutti poi trovano possibilità di realizzazione. Improvvisamente si capisce che forse qualcuno tra questi si potrà concretizzare. Per ora mi tocca aspettare.

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