ISIS: DENTRO L'ESERCITO DEL TERRORE

Inviato da Radiophonica il Gio, 23/04/2015 - 09:49
ISIS: DENTRO L'ESERCITO DEL TERRORE

 

L’Isis è davvero ciò che viene raffigurato dal racconto dei media? E’ questo un interrogativo sempre più ficcante, nato dalle notizie di cronaca che vedono come protagonista il gruppo armato, il quale si trascina dietro un alone nero di terrore. Nella giornata di Venerdì 18 Aprile hanno cercato di rispondervi, in un panel discussion dell’ IJF15 dedicato proprio al “Cyber Caliphate”, Fabio Chiusi, giornalista freelance, Eugenio Dacrema, ricercatore associato ISPI, e Marta Serafini, Corriere della Sera. Gli speaker hanno cercato di spiegare, a più riprese, come la propraganda mediatica sia un modo di autorappresentarsi dell’Isis , dando l’immagine di sé che vuole dare, senza mai dimenticare di fregiarsi di Dio come vessilo, indispensabile a dare senso e leggittimità alla jihad. “Non leggete su di noi, leggete da noi” affermano gli stessi militanti e, ancora, “ Siamo in battaglia e più della metà di essa si gioca tramite i media”. Com’è possibile contrastare tale propaganda? A parere di Fabio Chiusi lo strumento da prediligere è quello di una contronarrazione efficace, ma realizzarla è molto difficile, anche perché nel giornalismo il “sangue” fa copie ed esercita un’attrazione fatale sui lettori, spinti dalla curiosità. Allora si cercano altre soluzioni contro la social media strategy, come la politica di rimozione di numerosi account che fanno capo al Califfato, adottata da Twitter, in modo da tentare, in qualche modo, di veicolare l’informazione. Spesso, però, il messaggio passa ugualmente e con maggiore forza. Si parla di una guerra fra le narrazioni, il cui il riscontro è tutt’altro che teorico. Eugenio Dacrema ha successivamente parlato del binomio terrorismo - comunicazione, affermando che il primo è in sé volontà di comunicare verso il nemico, ma anche verso nuovi proseliti. I movimenti terroristici sono cambiati con i mezzi di comunicazione di massa. E’ cambiato non solo ciò che dicono, ma anche, e soprattutto, come lo fanno. Dacrema ha fatto un excursus dei vari “periodi mediatici” succedutisi, a partire dalla metà dagli anni ‘90 con “l’Era dei figli”, quando un’embrionale Al Jazeera facilmente gestibile muoveva i primi passi. Nell’”Era dei fratelli” il movimento aveva tentato di seguire lo sviluppo dei media, spettacolarizzando pochi “eroi” votati al terrorismo per suscitare una rivolta generalizzata che ancora non c’era. A nulla era valsa la tecnica contronarrativa utilizzata da Bush, che idealizzava la vita dei musulmani tramite un videoclip che voleva far apparire “buoni” gli americani, considerati, invece, usurpatori in Medio Oriente. Si arriva,poi, all’epoca attuale, quella dei new media, dove la Tv ricopre un’importanza relativa ed è il web a farla da padrone. Esso viene usato da Al Zarqawi per rispondere al bisogno di immediatezza di cui necessitano i suoi seguaci, diffondendo il seguente messaggio: il Califfato si fa qui e ora. I media nostrani riproducono pedissequamente ciò che viene immesso nel web, ma tale idea di espansione, perpetrata anche attraverso la continua pubblicazione di cartine dove gradualmete i contorni dello Stato Islamico sono ampliati, non corrisponde alla realtà. La situazione attuale è che molte battaglie sono state perse dall’Isis, soprattutto a Kobane e Tikrit, e in Libia molte fazioni in lotta fra loro si sono affiliate al gruppo armato solo per cercare di prenderne il brand e il carico mediatico, così da sperare in una ipotetica vittoria. “ E’ come se cercassero di creare una bolla destinata, prima o poi, a dover esplodere. Nel frattempo, il rischio è che la violenza diventi la normalità , portando sempre più in là il livello della tolleranza” ha detto Dacrema. Marta Serafini ha,poi, descritto il ruolo della donna all’interno dello Stato Islamico. La giornalista ha parlato di un modello di comunicazione orizzontale, utilizzato dall’Isis in tutti i campi, anche per quanto riguarda le donne. E’ difficile pensare che una donna decida di far parte di un gruppo all’interno del quale sarà fatta schiava, ma tramite la diffusione dell’immagine di “principessa guerriera”, con videoclip che la ritraggono contornata da innumerevoli agi e il più delle volte la vedono compagna dei capi, i terrotisti riescono a procacciarsi proseliti anche fra le donne. In realtà, esse hanno diversi ruoli: oltre alle compagne di coloro che stanno ai vertici, ci sono le combattenti e, per finire, le schiave. In definitiva, sfruttare i social media non vuol dire vincere, perché bisogna poi scontrarsi con la realtà militare, che è un’altra. “Noi non sappiamo di quanti uomini stiamo parlando” ha detto la Serafini, “non abbiamo nemmeno la possibilità di verficare i fatti perché nessuno manda più inviati in Siria, quindi non ci sono gli strumenti necessari per fare bene il nostro lavoro”. In questo caos, creato dalla carenza di strumenti interpretativi e dal diffondersi della politica di terrore, proprio così com’era nei piani dei terroristi islamici, nessuno sa dove sta veramente la verità e sempre meno professionisti sono disposti a rischiare la propria vita per ricercarla. L’Isis ha già i suoi mezzi di comunicazione. Giornalisti che vadano e facciano sapere al mondo la verità non sarebbero graditi. Cosa fare? La contronarrativa è e resta l’arma migliore, con ogni mezzo possibile, anche avvalendosi dell’operato e delle testimonianze degli attivisti anti-Isis di Rakka, fino all’ultima spiaggia della rimozione degli account twitter. Recentemente ne sono stati chiusi addirittura diecimila in un giorno solo.

Cecilia Robellini

 

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