Emanuele Salce: “Tra Luciano e Vittorio, raccontando alfine me stesso”

Inviato da Radiophonica il Mar, 04/02/2020 - 12:04

A cura di Alessandro Ticozzi

A dieci anni dal debutto – e in prossimità del ritorno in scena – , l’attore narra il proprio spettacolo-manifesto da duplice “orfano d’arte”, rievocando il rapporto con i celebri padre e patrigno.

 

 

Da diverse stagioni teatrali porti in scena in tutta Italia – e con grande successo – Mumble Mumble ovvero Confessioni di un orfano d'arte: com'è nata l'idea di questo monologo e come l'hai sviluppata insieme ad Andrea Pergolari, già al tuo fianco per la realizzazione del documentario e del volume su tuo padre Luciano?

 

Mumble mumble ovvero Confessioni di un orfano d’arte nasce nel 2009 quasi per caso, quando la direzione artistica di un teatro privato milanese, dopo avermi visto in un’intervista televisiva, mi offrì di fare una serata nel loro spazio estivo. “Vorremmo conoscerLa artisticamente”, fu la proposta. Non mi era mai successo prima: facevo l’attore seriamente da poco ed avevo fatto solo due-tre spettacoli prima d’allora (di cui la metà trascurabili…). Ero molto gratificato e spaventato al tempo stesso. Potevo fare quello che volevo mi dissero: “Qualcosa dal suo repertorio (io non avevo un repertorio), una lettura, scelga Lei…”. Il primo istinto fu quello di cercare supporto nei classici: La mite di Dostoevskji era sempre stato uno dei miei racconti preferiti. Optai per quello senza indugi. Ma poi, per enorme senso di gratitudine verso questi signori sconosciuti che mi offrivano questa inaspettata e gratificante possibilità, tornai sui miei passi e, ritenendo di dover fare qualcosa di più per poter contraccambiare adeguatamente la generosa offerta, aprii il rubinetto dei miei ricordi più intimi senza indugi e venne fuori tutto, tutto ciò che avevo di più intimo dentro di me: ricordi di persone care scomparse, momenti intimi di quasi felicità come momenti imbarazzanti. Tutte esperienze di vita vissuta in prima persona, da me. Chiamai accanto a me per l’impresa Andrea Pergolari per darmi una mano decisiva nell’intelaiare in maniera coerente tutto il materiale prodotto. Ma pochi giorni prima dell’andata in scena, accadde l’inaspettato. Lo stesso teatro che mi aveva tanto cercato, ingaggiato e tanto incoraggiato a farmi conoscere artisticamente presso il suo spazio, decise di censurarmi! La direzione artistica ritenne infatti volgare ed impresentabile il mio terzo racconto, si dissero scandalizzati ed offesi da alcuni riferimenti scatologici in esso contenuti. Inutile dire che ci rimasi malissimo. Non riuscivo a farmene una ragione. Il mio produttore mi disse di non farne un dramma e che mi avrebbe offerto di metterlo in scena comunque per qualche serata all’interno di una sua rassegna di testi inediti che si sarebbe tenuta qualche mese più tardi. E lì accadde l’imponderabile: lo spettacolo ebbe un successo insperato (almeno da me), registrammo persino degli esauriti e ci fu proposto di replicare per tutta la settimana successiva. A Roma si sparse in fretta la voce che accadeva qualcosa di molto interessante nel nostro teatrino: venne chiunque, dai colleghi agli impresari. Finché uno di questi decise subito di prenderlo e metterlo nel suo cartellone l’anno successivo. Da lì parte l’avventura di questo piccolo spettacolo che finisce per diventare così quasi grande e ad andare in scena ancora oggi, dopo dieci stagioni, girando l’Italia con enorme consenso di pubblico ed innumerevoli recensioni positive. A volte si dice che, nella vita, quando si chiude una porta poi si apre un portone. Per noi andò proprio così. E per certi aspetti devo molta gratitudine a quella censura. Senza di essa non avrei mai partecipato alla rassegna di testi inediti e lo spettacolo sarebbe nato e morto quella stessa sera. Per la cronaca, quel teatro ha poi interrotto la sua programmazione pochi anni dopo, mentre il mio racconto – oggetto di scandalo e censura – è finito per divenire parte del romanzo Terre rare di Sandro Veronesi con tanto di dedica e complimenti.

 

 

Tra Luciano e il tuo patrigno, Vittorio Gassman, quali analogie e differenze c'erano come uomini e come artisti?

 

Erano due uomini profondamente diversi e provenienti da storie diverse, ma con delle passioni comuni. Questo credo sia anche lampante dalle loro diverse carriere e personalità così come sono state ben conosciute e riconosciute pubblicamente. Mio padre era sicuramente più aperto mentre Vittorio, dietro la sua armatura gassmaniana, celava una grande timidezza. Ma entrambi si sono espressi a livelli altissimi secondo le loro caratteristiche naturali.

 

 

Quali sono i ricordi personali e professionali che più ti legano all'uno e all'altro?

 

Di mio padre ricordo qualche breve momento sui set di Fantozzi e in un paio d’altri film: non molto di più, non avendo vissuto con lui nel quotidiano. Di Vittorio ricordo lunghi momenti a teatro: nei camerini, dietro le quinte e le prove, ma quando ero piccolo. Per tutta la mia adolescenza ed anche oltre sono stato lontano da quel mondo. Solo negli anni finali della sua vita, quando portava in scena i suoi “addii alla carriera”, abbiamo trascorso dei lunghi periodi assieme, in cui – oltre a lavorare come suo assistente – ho anche fatto qualche avventata apparizione sulle scene per suo espresso desiderio. Unicamente molti anni dopo avrei deciso di prendere sul serio questa strada lavorativa e proseguire su un mio percorso indipendente.

 

 

Quali tratti della personalità di ciascuno di loro pensi di avere ereditato?

 

Da Vittorio sicuramente il rigore ed il rispetto della professione, delle sue regole, la disciplina. Da mio padre la capacità di cogliere sempre il lato ironico della vita e dei suoi aspetti più diversi: fare tutto sempre seriamente, ma senza prendersi troppo sul serio.

 

 

Cos'ha rappresentato per entrambi tua madre, Diletta D'Andrea?

 

Il grande amore. Per entrambi è stata la donna fondamentale. Mia madre dice sempre scherzando (ma credo anche sul serio) che – se avesse potuto – avrebbe vissuto con entrambi, in una sorta di relazione alla Jules e Jim. E credo che mio padre lo avrebbe anche accettato, mentre Vittorio sicuramente no. Ha fatto innamorare due uomini importanti che credo oggi manchino non solo a lei.

 

 

Pensi di aver capito qualcosa in più di loro – e prima ancora di te stesso – grazie a questo spettacolo?

 

Uno spettacolo di matrice autobiografica è sempre l’occasione per rimettere un po’ le mani dentro di sé e fare anche un po’ di ordine attraverso un’accurata introspezione. Ti dà la possibilità di chiudere dei cerchi e di sanare delle ferite che avevi trascurato, nonché modo di riavvicinarti a chi hai perduto in un modo diverso: capire cose che prima ti sfuggivano o sulle quali non ti eri soffermato abbastanza. Ho capito che non mancano molto solo al mondo dello spettacolo, ma anche a me. Che sarebbe stato bello potermi confrontare ancora con loro, da adulto. Ora avrei più chiaro anche cosa dirgli e cosa chiedergli. Sono sempre stato insofferente rispetto alla mia condizione di figlio d’arte, forse anche per questo sono stato lontano dalla professione per quattro lunghi decenni. E – solo dopo aver risolto molti dei miei “tormenti” giovanili – ho potuto affrontare un testo come questo, me stesso, le mie fragilità. E metterle in scena con onestà, pur rimanendo distaccato ed interprete di me stesso. È terapeutico e necessario.

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