Antonio Calenda: “Ho allestito un teatro che mi rispecchiasse, dirigendo i nostri più grandi attori del secondo Novecento”

Inviato da Radiophonica il Gio, 20/08/2020 - 08:10

a cura di Alessandro Ticozzi

 

Il grande regista teatrale ripercorre i passaggi fondamentali della sua fortunata carriera, dalla sperimentazione del Centouno alle grosse produzioni: sempre restando fedele alle proprie più autentiche necessità espressive.

 

 

Cosa L’ha spinta a fondare nel 1965, a Roma, con Virginio Gazzolo, il Teatro Centouno dedicato soprattutto alla scoperta di nuovi testi italiani e stranieri?

 

In quegli anni noi giovani teatranti nutrivamo una vocazione eccentrica, determinata dalla volontà di innovare le scene italiane. L’incontro con Virginio Gazzolo, al teatro universitario, aveva in qualche modo corroborato il mio desiderio di creare un percorso alternativo alla tradizione dominante. Benché i maestri di allora fossero straordinari – penso a Strehler, che è stato sempre un mio punto di riferimento – eravamo scettici nei confronti delle grandi compagnie private, che preservavano un repertorio fortemente tradizionale. Anche grandi talenti come Cervi, Albertazzi, la Pagnani e la Proclemer, ad esempio, si limitavano a soluzioni teatrali che a noi apparivano desuete. Usciti dalla fucina del teatro universitario – che frequentai insieme ad artisti che poi divennero particolarmente espressivi, come Tino Schirinzi e Leo De Berardinis – ci venne l’idea di fondare il Centouno in una cantina romana. In quel momento a Roma l’avanguardia era formata da pochi gruppi quali, sopra tutti, Carmelo Bene, Carlo Quartucci e lo stesso De Berardinis. Ginni Gazzolo era un attore raffinatissimo: aveva lasciato il Teatro Stabile di Torino per percorrere una strada alternativa che avrebbe dovuto essere diversa ed espressiva. A noi s’aggiunsero Gigi Proietti – anch’egli proveniente del Teatro Universitario – quindi Piera Degli Esposti e Francesca Benedetti. Insieme fornimmo delle prove eccezionali. Con il nostro drammaturgo di allora – un giovane Corrado Augias – allestimmo Direzione Memorie, uno spettacolo di forte proposta innovativa. Ottenemmo un grande successo di critica: Sandro De Feo, il grande critico dell’Espresso scrisse che “grazie a due o tre gruppi come il nostro si sarebbe potuta risolvere la crisi del teatro italiano”. Paolo Grassi – il mitico fondatore del Piccolo Teatro di Milano – lesse quest’articolo: venne a Roma in incognito per vederci e, di lì a poco, ci invitò a rappresentare lo spettacolo nel suo ambitissimo teatro. Iniziò così la carriera di tutti noi. Il Centouno s’irrobustì, la critica ormai ci accoglieva con particolare interesse, e molti teatri desideravano rappresentare le nostre proposte.

 

 

Negli anni Settanta Lei ha appunto diretto il Teatro Stabile dell'Aquila, avendo come sodali attori come Gigi Proietti e Piera Degli Esposti, Suoi abituali collaboratori, e allestendo in prima nazionale opere di Moravia, Gombrowicz, Bond e molti altri. Cosa Le piace più ricordare di quest’esperienza?

 

Mi piace ricordare che quel teatro ci permise di realizzare spettacoli decisamente innovativi. Perché si mostrò disponibile a proporre un repertorio fortemente alternativo a quello in uso nel teatro pubblico di allora. Noi, ad esempio, all’Aquila potemmo proporre con grande successo un testo dell’avanguardia espressionista polacca come Operetta di Gombrowicz. Grassi lo ospitò al Lirico di Milano e, per il grande successo, ci fece stare in repertorio dieci giorni più del normale. Si noti che allora eravamo tutti sconosciuti: da Proietti a Piera Degli Esposti; fino a un regista come me, che chiaramente cominciava a proporsi con quegli spettacoli. Inoltre il Teatro Stabile dell’Aquila mi permise di affrontare anche Il dio Kurt di Moravia, un dramma che io amavo perché mi sembrava particolarmente originale la rivisitazione del mito greco di Edipo all’interno dei campi di concentramento nazisti. Fu un’esperienza che mi permise di maturare artisticamente. Inoltre, con essa, riuscii a mettere in scena un testo che neanche Visconti e Strehler – per i quali era stato appositamente scritto – erano riusciti a realizzare. Il successo fu immenso e lì si rivelò Gigi Proietti.

 

 

Nel 1973 Lei ha fornito la Sua unica prova dietro la macchina da presa con Il giorno del furore: cosa L’ha spinta a cimentarsi in quest’impresa?

 

Mi cimentai perché ebbi l’offerta di girare il film da parte della Metro-Goldwyn-Mayer. Avevo precedentemente realizzato Il ratto, un piccolo film per la RAI sul primo atto di banditismo in Sardegna, che venne comprato anche da varie televisioni americane, che lo trasmisero con molto successo. La Metro-Goldwyn-Mayer – che doveva investire i soldi lasciati in Europa, per una legge secondo cui i proventi dei film americani per una parte doveva essere vincolata a produzioni europee – scelse quindi me per realizzare questo progetto tratto da Vadim, un romanzo incompiuto del grande scrittore romantico russo Michail Lermontov. Ero felicissimo non solo perché era un onore lavorare per la Metro a trent’anni, ma anche in quanto reduce da un fallimento totale in teatro. Avevo appena fatto Il balcone di Genet con una compagnia di grande valore, in cui c’erano Rigillo, Herlitzka, la Vukotic, Franca Valeri e il grande Sergio Tofano. Io credevo che l’esemplare modernità di Genet venisse riconosciuta dal pubblico, che invece non gradì questa proposta alternativa: fu un disastro economico incredibile, e proprio Il giorno del furore arrivò a salvarmi dalla depressione totale. Questa pellicola ebbe un grande successo nel mercato internazionale grazie ad un “parterre de rois” attoriale che andava dal grande Oliver Reed – che allora era famosissimo per aver interpretato I diavoli di Ken Russell – fino a Claudia Cardinale.

 

 

Che ricordo serba dei numerosi attori famosi da Lei in seguito diretti, da Giorgio Albertazzi (Enrico IV di Pirandello, 1981) a Turi Ferro (Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo, 1987) e Anna Proclemer (Giorni felici di Beckett, 1990; Danza di morte di Strindberg, 1992); nonché di celebri protagonisti dell'avanspettacolo da Lei riscoperti, quali i fratelli Maggio (Era 'na sera 'e maggio, 1983) e Pietro De Vico (Cinecittà, 1985)?

 

I ricordi di questi attori rimangono impressi nel cuore e nella memoria. Nella mia vita ho avuto la fortuna di dirigere quasi tutti i grandi protagonisti del teatro italiano e da loro ho imparato molto. Ho avuto modo di vivere esperienze innovative e riversavo su attori giovani quello che imparavo. Negli anni Settanta-Ottanta fondai una mia compagnia per rendermi libero da condizionamenti determinati dal mercato. Affrontai, così, grandi spettacoli con attori importanti. In particolare Albertazzi è stato un po’ un mio fratello maggiore. Da lui ho molto appreso e con lui ho vissuto momenti memorabili. Importante anche l’esperienza vissuta con i grandi comici dell’avanspettacolo come De Vico e i fratelli Maggio. Con loro ho realizzato spettacoli che hanno fatto il giro del mondo.

 

 

Quale comune denominatore di ricerca possiamo trovare nelle Sue successive regie teatrali come Tradimenti (di Pinter, 1991), Rosanero (di Cavosi, 1994) e Il Visitatore (di Schmitts, 1996), nonché quelle delle opere shakespeariane Riccardo III (1998) e Re Lear (2004)?

 

Trovare una consecutio è un po’ difficile perché sono un eclettico: non mi sono mai ripetuto. Ho sondato vari livelli: credo che un regista debba confrontarsi o misurarsi in ambiti diversi, nonché con autori e attori diversi. Non amo un’espressività uniforme e monotona: ho sempre cercato di non ripetermi, trovando interesse in proposte che in qualche modo si diversificassero tra loro. Mediamente ho sempre puntato all’alta qualità. Perciò credo che il mio teatro – guardando alle critiche e a tutti coloro che hanno amato i miei spettacoli – abbia sempre rispettato le regole dell’approfondimento critico dei testi proposti.

 

 

Cosa L’ha spinta infine ad accettare la direzione del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e a svolgere attività di regista radiofonico e televisivo?

 

Negli anni Novanta la mia produzione era di altissima potenzialità. Il Ministero riconobbe la qualità del lavoro svolto con contributi rilevanti. Ma accadde, nel Teatro italiano, una rivoluzione copernicana. Cominciarono ad andare di moda gli attori televisivi e il mercato subì i guasti prodotti della televisione commerciale. Andava per la maggiore un teatro che io non potevo e non volevo produrre: per cui – quando mi arrivò la proposta del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia – trovai un’opportunità per poter governare i miei desideri artistici, che da privato non avrei potuto esaudire. Ho affrontato quest’avventura con il massimo impegno. Nel corso dei vent’anni trascorsi a Trieste ho realizzato almeno trenta spettacoli di fondamentale importanza, affrontando testi tragici e contemporanei. Ho portato, insomma, ad alta espressività un teatro che – intorno alla metà di quel decennio – viveva momenti di grandi difficoltà.

 

 

Ormai ottantenne che bilancio trae della Sua vita personale e professionale?

 

Il teatro è grande fatica e pochi sanno quanto sia difficile fare questo mestiere: ho cercato di inscenare tutti i testi che da giovane sognavo di realizzare. Li ho realizzati al 95%. Me ne mancano ancora pochi che cercherò di allestire nei prossimi anni.

 

 

Quindi sono questi i Suoi progetti per il futuro?

 

Certo. Continuando a realizzare un teatro che mi rappresenti e sia un segno forte di quello che ancora ho necessità di esprimere.

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